di Alessandro Basile
Teatro del Buratto
Spettacolo per la Scuola Secondaria di primo grado
Marco e Mahima, due vite, due realtà, due adolescenze distanti, in apparenza inconciliabili, eppure unite in un destino comune: essere vittime di quel sistema che chiamiamo moda. Marco ha sedici anni, vive a Milano ed è convinto di poter affermare liberamente se stesso, la propria identità attraverso il proprio stile. Non si accorge d’essere saturo di messaggi promozionali, diktat di immagine, slogan che gli impongono come deve apparire e lo convincono di cosa ha bisogno. Senza lasciargli realmente lo spazio per chiederselo. Mahima ha quattordici anni, vive a Dacca, in Bangladesh, da quando ne ha otto è operaia in una fabbrica tessile, un destino che condivide con decine di migliaia di sue coetanee. Vive il suo mondo considerandolo l’unico possibile; non ha mai messo lo smalto, non è mai stata al cinema, nel giro di un paio di anni si sposerà secondo lo schema Samungali, il meccanismo che ancora oggi permette di vendere le proprie figlie alle industrie di moda al fine di accumulare una dote. Marco crede di essere libero, crede di scegliere, crede di desiderare, ma i suoi desideri sono appaltati a industrie che pensano solo al proprio profitto. Marco percepisce un vuoto e cerca di colmarlo aggiungendo articoli al carrello. Mahima non sa cosa sia la libertà, la scelta, il desiderio. Non lo sa semplicemente perché nessuno gliel’ha mai insegnato: vive la sua vita in una incosapevolezza senza prospettive.
Tra queste due vite che lo spettacolo racconta su binari paralleli c’è un sistema al collasso. L’industria tessile è tra le più inquinanti sul pianeta: produce da sola più emissioni del trasporto aereo, ferroviario e marittimo. Dal 2010 ad oggi la sua produzione è raddoppiata, ogni occidentale compra in media 26 chili di abiti all’anno e ne butta 11, che non essendo riciclabili finiscono inceneriti o in discarica. La fast fashion inquina i cieli, i mari, le anime: ogni giorno milioni e milioni di persone lavorano in semi schiavitù solo per permettere a noi di continuare a consumare sfrenatamente. In tutto ciò, bambini e adolescenti sono una preda irresistibile: fragili nei loro bisogni, pronti ad essere indottrinati per diventare i consumatori di domani. Ma questo Marco e Mahima non lo sanno e non ne hanno colpa. Il loro mondo è collegato, ma loro non lo vedono. Il loro mondo è uno solo, si sta esaurendo e loro sono ancora innocenti. Lo spettacolo cerca con dolcezza e ironia, pur senza sconti, di raccontare a ragazze e ragazzi un sistema che è insostenibile dal punto di vista ambientale, sociale, psicologico ed economico. Dal punto di vista umano, insomma. Con la fiducia che il loro sguardo, se reso cosciente, possa mettersi in una posizione critica e aiutarci a costruire un sistema differente, con una maggiore attenzione alla vita di tutte e tutti.
La drammaturgia opera in gran parte in modo metateatrale. L’attrice e l’attore, presenti sin dall’ingresso in platea del pubblico e dialoganti con esso, scivolano dentro la scena e iniziano ad evocare e raccontare il mondo di Marco e Mahima, senza scivolare necessariamente nell’impersonarsi in essi. I due protagonisti sono raccontati con una distanza narrativa, uno straniamento di matrice brechtiana, che permette di vedere l’oggetto dell’indagine, in questo caso un ragazzo ed una ragazza, con uno sguardo più pulito, oggettivo, pur senza rinunciare al carico emotivo che necessariamente le loro storie portano con sé. L’utilizzo sulla scena di due manichini lavora sempre in questo senso e ne amplifica la dimensione. L’attore e l’attrice sulla scena fanno riferimento a questi pupazzi muti e indefiniti per disegnare sopra i loro corpi neutri le vite di Marco e Mahima; talvolta li prendono con sé e li animano, richiamando lontanamente una forma di teatro di figura. In questo modo il manichino, che di per sé appare un oggetto inanimato e anche tendenzialmente freddo e inquietante, diventa il medium attraverso il quale far scorrere la vita dei protagonisti e, conseguente, quella delle giovani spettatrici e spettatori. L’apparente inespressività del volto bianco si riempe di segni e di senso, i dettagli narrativi ne definiscono la figura e creano correlazioni tra la vicenda narrata e quelle vissute da chi è in platea. In pochi momenti chiave, invece, l’attrice e l’attore rompono questo dispositivo drammaturgico e scivolano nella prima persona, impersonando Marco e Mahima in brevi monologhi, intimi ed emotivi, come è più comune nel teatro d’attore. L’utilizzo del videomapping ha invece la funzione di trasformare le superfici scenografiche in schermi di proiezione, rincorrendo l’estetica e la potenza visiva dei cartelloni pubblicitari e degli slogan. Una scena apparentemente asettica si anima come fanno i pannelli a led nelle nostre piazze cittadine o alle fermate del metro, ma contrariamente agli entusiastici messaggi del marketing (be stupid, impossible is nothing, just do it), racconta in immagini e parole una più triste verità sul mondo della fast fashion.
di Alessandro Basile
Teatro del Buratto
Spettacolo per la Scuola Secondaria di primo grado
Marco e Mahima, due vite, due realtà, due adolescenze distanti, in apparenza inconciliabili, eppure unite in un destino comune: essere vittime di quel sistema che chiamiamo moda. Marco ha sedici anni, vive a Milano ed è convinto di poter affermare liberamente se stesso, la propria identità attraverso il proprio stile. Non si accorge d’essere saturo di messaggi promozionali, diktat di immagine, slogan che gli impongono come deve apparire e lo convincono di cosa ha bisogno. Senza lasciargli realmente lo spazio per chiederselo. Mahima ha quattordici anni, vive a Dacca, in Bangladesh, da quando ne ha otto è operaia in una fabbrica tessile, un destino che condivide con decine di migliaia di sue coetanee. Vive il suo mondo considerandolo l’unico possibile; non ha mai messo lo smalto, non è mai stata al cinema, nel giro di un paio di anni si sposerà secondo lo schema Samungali, il meccanismo che ancora oggi permette di vendere le proprie figlie alle industrie di moda al fine di accumulare una dote. Marco crede di essere libero, crede di scegliere, crede di desiderare, ma i suoi desideri sono appaltati a industrie che pensano solo al proprio profitto. Marco percepisce un vuoto e cerca di colmarlo aggiungendo articoli al carrello. Mahima non sa cosa sia la libertà, la scelta, il desiderio. Non lo sa semplicemente perché nessuno gliel’ha mai insegnato: vive la sua vita in una incosapevolezza senza prospettive.
Tra queste due vite che lo spettacolo racconta su binari paralleli c’è un sistema al collasso. L’industria tessile è tra le più inquinanti sul pianeta: produce da sola più emissioni del trasporto aereo, ferroviario e marittimo. Dal 2010 ad oggi la sua produzione è raddoppiata, ogni occidentale compra in media 26 chili di abiti all’anno e ne butta 11, che non essendo riciclabili finiscono inceneriti o in discarica. La fast fashion inquina i cieli, i mari, le anime: ogni giorno milioni e milioni di persone lavorano in semi schiavitù solo per permettere a noi di continuare a consumare sfrenatamente. In tutto ciò, bambini e adolescenti sono una preda irresistibile: fragili nei loro bisogni, pronti ad essere indottrinati per diventare i consumatori di domani. Ma questo Marco e Mahima non lo sanno e non ne hanno colpa. Il loro mondo è collegato, ma loro non lo vedono. Il loro mondo è uno solo, si sta esaurendo e loro sono ancora innocenti. Lo spettacolo cerca con dolcezza e ironia, pur senza sconti, di raccontare a ragazze e ragazzi un sistema che è insostenibile dal punto di vista ambientale, sociale, psicologico ed economico. Dal punto di vista umano, insomma. Con la fiducia che il loro sguardo, se reso cosciente, possa mettersi in una posizione critica e aiutarci a costruire un sistema differente, con una maggiore attenzione alla vita di tutte e tutti.
La drammaturgia opera in gran parte in modo metateatrale. L’attrice e l’attore, presenti sin dall’ingresso in platea del pubblico e dialoganti con esso, scivolano dentro la scena e iniziano ad evocare e raccontare il mondo di Marco e Mahima, senza scivolare necessariamente nell’impersonarsi in essi. I due protagonisti sono raccontati con una distanza narrativa, uno straniamento di matrice brechtiana, che permette di vedere l’oggetto dell’indagine, in questo caso un ragazzo ed una ragazza, con uno sguardo più pulito, oggettivo, pur senza rinunciare al carico emotivo che necessariamente le loro storie portano con sé. L’utilizzo sulla scena di due manichini lavora sempre in questo senso e ne amplifica la dimensione. L’attore e l’attrice sulla scena fanno riferimento a questi pupazzi muti e indefiniti per disegnare sopra i loro corpi neutri le vite di Marco e Mahima; talvolta li prendono con sé e li animano, richiamando lontanamente una forma di teatro di figura. In questo modo il manichino, che di per sé appare un oggetto inanimato e anche tendenzialmente freddo e inquietante, diventa il medium attraverso il quale far scorrere la vita dei protagonisti e, conseguente, quella delle giovani spettatrici e spettatori. L’apparente inespressività del volto bianco si riempe di segni e di senso, i dettagli narrativi ne definiscono la figura e creano correlazioni tra la vicenda narrata e quelle vissute da chi è in platea. In pochi momenti chiave, invece, l’attrice e l’attore rompono questo dispositivo drammaturgico e scivolano nella prima persona, impersonando Marco e Mahima in brevi monologhi, intimi ed emotivi, come è più comune nel teatro d’attore. L’utilizzo del videomapping ha invece la funzione di trasformare le superfici scenografiche in schermi di proiezione, rincorrendo l’estetica e la potenza visiva dei cartelloni pubblicitari e degli slogan. Una scena apparentemente asettica si anima come fanno i pannelli a led nelle nostre piazze cittadine o alle fermate del metro, ma contrariamente agli entusiastici messaggi del marketing (be stupid, impossible is nothing, just do it), racconta in immagini e parole una più triste verità sul mondo della fast fashion.